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Italiani gettati nelle foibe. Romanzo La stanza di Piera, di Stefania Conte

Aggiornamento: 24 ott 2020

Dopo Carlo Sgorlon con il suo romanzo best-seller La foiba grande, del 1992, ecco una nuova impegnativa narrazione, opera di Stefania Conte, sul tema delle foibe, così vietato nel secolo scorso, per non disturbare Tito e la sua politica, rivelatasi fallimentare. La scrittrice Conte, avvezza ad addentrarsi nei meandri della storia, ci propone un leggibile brano di avvenimenti poco noti, com’è ovvio, con il suo angolo visuale.

Diciamolo subito: il romanzo è opera di fantasia e creatività. Se si trova in esso qualcosa che diverge dal proprio vissuto, ciò dipende dall’inventiva dell’autore. Partendo da tale approccio i profughi d’Istria, Fiume e Dalmazia e i loro discendenti che si mettessero a leggere La stanza di Piera, di Stefania Conte, non farebbero tanti salti sulla sedia. Sin dal risvolto della copertina del volume di 330 pagine, si legge infatti che: “L’Istria, prima e dopo il 1943, fa da palcoscenico principale alle vite di coloro che hanno risposto alla dominazione italiana, tedesca e jugoslava con la paura, lo spaesamento, il dolore, la speranza, la gioia, la tolleranza, l’accettazione ideologica e l’odio etnico”. È quello strano concetto di dominazione italiana, che farà fare il primo salto sulla sedia. Perpetrato da certi storici accademici, esso cozza con la visione del mondo e delle cose dei 350mila italiani sfuggiti alle angherie dei miliziani di Tito dal 1943. Essi, i loro genitori e nonni prima di tutto, hanno anelato di essere italiani, sotto la dominazione austroungarica. Dal 1918 al 1947 sono stati felici di essere italiani a casa loro: in Istria, a Fiume e a Zara. In certi casi i loro antenati erano lì da secoli in quei centri urbani di fondazione romana, non slava. Quella dei crucchi era una dominazione, con tutti gli annessi e connessi. Altrimenti Nazario Sauro che tipo era? E il gruppo della Giovine Fiume, del 1905, era fatto da quattro citrulli che giravano col tricolore italiano solo per tifoseria? Prima di loro “la città del Carnaro, dimenticata ed anche ripudiata, aveva mandato, sì, suoi figli all’epica difesa di Venezia nel 1849 ed era stata rappresentata nella campagna del 1866 nell’esercito e nelle schiere garibaldine da alcuni volontari” (Giovanni Stelli, L’irredentismo a Fiume, 2015). La copertina del libro della Conte è pubblicata qui sotto.

Certo, il fascismo col 1922 ne combina di cotte e di crude, RSI inclusa. È per tale motivo che l’autrice spende le prime 130 pagine del testo a spiegare il malessere degli allogeni, costretti in qualche caso all’esodo in un paese così unito che già nel nome reca tre esasperati nazionalismi: è il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni. Esso diviene Jugoslavia nel 1929, dopo un golpe e ammazzamenti vari tra i nazionalisti balcanici. Chissà perché l’autrice, italiana nata a Venezia, si dimentica le vetrine dei negozi italiani rotte dagli slavi a Spalato, nel 1921-1929, e l’esodo degli italiani di Spalato, Traù, Sebenico, Brazza, Lesina, Cattaro verso Zara, Trieste e Lagosta, pur di non dichiararsi iugoslavi. È sul concetto di Italiani due volte che ci si dovrebbe fermare a riflettere con Dino Messina, autore nel 2019 del volume omonimo, per comprendere i connazionali d’Istria, Fiume e Dalmazia, con tutti gli italofoni che si ritrovano in quelle terre ormai in una dimensione europea e di relazioni pacifiche.

Ricordo, tuttavia, che nel 1881 gli slavi del sud fanno saltare in aria il teatro più grande della Dalmazia, a Spalato, provocando morti e feriti, solo perché costruito coi soldi del sindaco Antonio Bajamonti, italiano, sotto gli Asburgo che erano filo-slavi in funzione anti-italiana. Si potrebbe aggiungere che il 13 febbraio 1870 c’è un tentativo di incendio al teatro “Verdi” di Zara, altro simbolo di italianità, dove oltre mille zaratini giurano ‘Italia o morte’ nel 1919. A Spalato, nel 1880, il giornalista zaratino, ma di origini friulane, Arturo Colautti, dopo aver scritto un articolo antiaustriaco, viene ferito gravemente a sciabolate da sette soldati slavi; sette contro uno! A Traù, prima ancora dei fatti degli anni Trenta, il giorno di San Silvestro del 1908 gli slavi organizzano una sassaiola contro il circolo di lettura italiano. Nel febbraio del 1909, l’insegna dello stesso circolo fu imbrattata con escrementi. Il 15 agosto del 1909, a Spalato, viene assalito un circolo culturale italiano. A Cittavecchia, sull’isola di Lesina, la sede dell’associazione culturale italiana “Unione” è oggetto di un lancio di pietre nel 1908 e poi di nuovo nel 1909. Potrei continuare a lungo, ma bisogna stare attenti a ricordare anche i non pochi dolori che l’Italia fascista ha provocato agli iugoslavi, altrimenti si rischia di ripetere l’errore degli opposti nazionalismi.

Vero è che nei primi giorni di dicembre del 1932 alcuni nazionalisti iugoslavi distruggono otto leoni di San Marco a Traù, retaggio delle antiche radici latine e venete della città. Fra questi vi era un celebre leone andante, bassorilievo di Nicolò Fiorentino e Andrea Alessi risalente al 1471, che campeggiava all’interno della Loggia Pubblica. Alcuni dei leoni mutilati sono ora esposti al museo cittadino o si trovano nell’ex convento di S. Domenico. In Friuli, la città di Udine, in risposta ai danneggiamenti slavi di Traù, ripristina in piazza Vittorio Emanuele il leone marciano sull’Arco Bollani, di Andrea Palladio, fatto togliere da Napoleone.

Riguardo al libro di Stefania Conte, i salti sulla sedia non finiscono qui; per praticità li lascerò all’agilità del lettore, che avrà molto da fare. Nella seconda parte del romanzo della Conte sono descritte le innumerevoli malefatte dei partigiani di Tito contro gli italiani per pulizia etnica, come le uccisioni nelle foibe, nei pozzi minerari, nelle fosse anticarro e con gli annegamenti e le lapidazioni. A questo punto i salti sulla sedia inizieranno a farli i quattro storici trinariciuti che si ostinano in Italia a difendere l’operato dei titini. Ci vuole coraggio a fare ciò, con tutte le foibe e le fosse comuni che continuano a saltar fuori in questi ultimi anni in Slovenia e in Croazia per merito di pretori, parroci e speleologi locali alla ricerca di verità e giustizia. Vengono esumati anche corpi di donne e ragazzini. La pulizia etnica, dal 1945, era rivolta pure contro gli stessi iugoslavi non ossequiosi a Tito: domobranci, cetnici, belagardisti, ustascia, nediciani… La carta geografica della Venezia Giulia (1918-1947) è proposta qui accanto, con le province di Pola Fiume e Zara.

I temi riguardanti l’etica della Resistenza non sono oggetto di indagini in Italia solo di Giampaolo Pansa, che ha iniziato ad indagare sulle eliminazioni nel Triangolo rosso di Reggio Emilia con Il sangue dei vinti (2005), con La Grande bugia (2006) ed altro. Essi sono stati messi sul piatto della bilancia sin dal 1991 da Claudio Pavone, col suo Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Poi, per i ricercatori, è stato come un fiume in piena fino, appunto, al ruolo dell’Ozna, il servizio segreto di Tito, negli eccidi dell’Italia del Nord, come quello di Vergarolla, del 1946. Penso a come viene male accolto da Giovanni Battista Padovan, “Vanni”, commissario politico della Divisione Garibaldi-Natisone, succube del IX Korpus titino, il lancinante diario di Renato Rozio intitolato La paga del Guerriero, del 1997. Già il sottotitolo di Rozio, coscritto della RSI, poi passato coi partigiani rossi, spiega molto: Le vicissitudini della Divisione Garibaldi-Natisone sul Collio e in territorio sloveno (1944-1945). Questo libro è un florilegio di nefandezze comuniste: dal ricatto per l’arruolamento partigiano, al ‘ti sparo’ se non fosse eseguito l’ordine del comandante ‘Lampo’, fino ai processi farsa popolari e alla fucilazione degli stessi partigiani da parte di altri partigiani; queste sono le infamie dei battaglioni Gregoratti, Mameli e Mazzini, con la stella rossa sul berretto.

Qualche parola ora verrà rivolta alla trama del romanzo di Stefania Conte, apprezzabile in chiave artistica e originale fonte di divulgazione storica. Potrebbe essere utilizzato, ad esempio, in alcuni laboratori di storia delle scuole superiori mediante progetti mirati all’educazione alla pace, alla tolleranza, agli scambi economici e culturali. Libero Martini, il protagonista, è nato ad Albona, paese bagnato dalle acque dell’Adriatico, nel golfo del Quarnaro. Nel 1943, a diciotto anni, va in bosco coi partigiani. Poi diserta e si arrende ai tedeschi, che incredibilmente non lo impiccano, com’era d’uso, ma lo comandano come ausiliario dei pompieri ad estrarre salme dalle foibe. Nei sessant’anni successivi la vita gli procura più dolori che gioie. Reagisce alle difficoltà e riesce a dare un senso alla propria esistenza prendendo i voti come prete cattolico. Alla soglia dell’ottantesimo compleanno, nei quaranta giorni che precedono il Natale decide di mettere nero su bianco ciò che anni prima ha vissuto in prima persona col dramma delle foibe. Spinto da incomprensibili suggestioni visive e sonore, colte in prossimità della chiesa di San Giovanni in Tuba a Duino, inizia raccontando di Piera Leoni, un’italiana di Fianona che non sopravvive alle foibe. Di lei, accusata ingiustamente dai partigiani titini di collaborazionismo e torturata nel castello di Pisino, esce un ritratto emblematico ed umanissimo di una persona che, con rara consapevolezza, scambia la propria vita per salvarne un’altra, dannandola, tuttavia, per sempre.

È un buon libro, in sostanza. La Conte dice pane al pane e vino al vino. Potrebbe perciò sollevare una vasta messe di polemiche a causa della storia non condivisa. Non saprei se potrà vincere qualche premio letterario, perché la sua scrittura è troppo chiara, diretta e senza giri di valzer. I premi, mi dicono, se li beccano i narratori diplomatici e molto equidistanti. Per qualcuno, affrontare la lettura de La stanza di Piera sarà come un pugno nello stomaco. Prevedo un buon numero di lettori finiti a tappeto. Per parte mia, sto cercando di rialzarmi. Son contento, tuttavia, perché la Conte contribuirà a divulgare un tratto della vicenda degli Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia fino al secondo dopoguerra.

Il libro qui recensito

Stefania Conte, La stanza di Piera, Nonta di Socchieve (UD), Morganti, 2020, euro 17, pagine: 330.

ISBN: 978-88-95916-86-6

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Recensione di Elio Varutti. Ringrazio per la consulenza sulla Dalmazia: Bruno Bonetti, con avi di Spalato e Zara, segretario dell’ANVGD di Udine. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Bruno Bonetti e Daniela Conighi (con avi di Fiume, Pola e Veglia). Copertina: Maria Iole Furlan, Salme dalla foiba, elaborazione da una foto storica con colori a olio e pennarello su foglio plasticato, cm 29,50 x 21, 2020, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo e dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD di Udine è Bruna Zuccolin. La cartolina di Fiume, ripresa dal web, pubblicata qui sopra, contiene i saluti in lingua italiana agli inizi del Novecento, quando la città stava sotto l'Austria-Ungheria.

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