Questa è una commovente storia nascosta tra le carte di famiglia. Imprigionato dai titini ai primi di maggio del 1945 a Monfalcone (GO) Giuseppe Sfiligoi, nato a Udine il 19 marzo 1879, finisce nel silenzio, anzi nel buio degli anfratti carsici. Oggi i discendenti in un memoriale di casa scoprono che “probabilmente il signor Giuseppe finì in una foiba”. Poco tempo dopo la sua scomparsa a Genova, dove era sfollata, “la moglie Elisa morì di crepacuore”. È il nipote Carlo Gnesutta, di Udine, a riferirmi la storia del suo caro nonno. Il memoriale si fonda sul racconto della figlia Teresa Sfiligoi, trasmessa al figlio Luciano. Dopo la morte del signor Luciano, suo figlio Tonino ha diffuso il memoriale tra i cugini e parenti, incluso Carlo Gnesutta, che si avvale pure dei ricordi di sua madre Danira Sfiligoi e di altri parenti. Nella fotografia qui sotto: Giuseppe Sfiligoi e la moglie Elisa, anni 1935-1940; Archivio C. Gnesutta, Udine.
Riporta ancora il memoriale citato che Giuseppe Sfiligoi “durante l’occupazione di Trieste e di Monfalcone da parte dei partigiani di Tito, primi giorni di maggio 1945, si dice che, per una delazione (di un monfalconese non proprio suo amico) che riguardava il suo passato fascista e, poiché era noto per la sua conoscenza delle lingue slave (parlava correntemente, oltre all’italiano, il tedesco, lo sloveno e il serbo-croato) fu preso dai giannizzeri slavi come traditore e… nessuno lo rivide più” (C. Gnesutta, Josef Sfiligoi…, pag. 4).
Il suo nominativo non compare nella lista di 651 nomi di italiani Scomparsi da Gorizia nel maggio 1945 per mano titina, raccolta nel 1980 da Lidia Luzzatto Bressan, presidente dell’Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia. Nella pubblicazione medesima è fatto chiaro cenno alla presenza di 3-4 organizzazioni poliziesche (pag. 15, 29), tra le quali c’è chi ha individuato l’Ozna, la famigerata polizia politica di Tito e pure i servizi segreti sovietici. Riguardo alla presenza di consiglieri russi Antonio Zappador, esule istriano, ha riferito che a Verteneglio, in provincia di Pola, nel 1945 due militari ucraini, in veste di consiglieri sovietici, avendo riconosciuto in casa sua madre Olga Alexsandrovna Rackowsckij, della nobiltà ucraina, le si sono inginocchiati accanto baciandole la veste, in barba ai fondamenti leninisti.
Certi sovietici caucasici si sono aggregati ai partigiani sloveni. Portati in Friuli e nella Venezia Giulia come serventi (o collaborazionisti?) dei nazisti, hanno poi disertato unendosi al Battaglione Istriano di partigiani del IX Corpus dell’Armata dell’esercito iugoslavo. Secondo quanto riferito da Stanislava Cebulec, Katra, partigiana della Brigata Kosovel, erano almeno cento i partigiani sovietici in quel reparto. Si sanno tre nomi: Mihajlo, Ivan Ruskj e Imram Gasimov Hesen. Mihajlo si chiamava Mehti Gusein-Zade, dell’Azerbaigian; fu ucciso in un’imboscata tedesca nella zona di Vipacco (ex provincia di Gorizia, oggi Slovenia). Ivan Ruskj si chiamava Mirdamat Sejdov, imprigionato dai tedeschi fu internato a Dachau, da dove si salvò e tornò a Trieste e poi nella sua Baku (Marina Rossi 1995). Pare che i servizi segreti sovietici, comunque, avessero dei forti dubbi di doppiogiochismo su diversi di tali personaggi (Silvio Maranzana 2001).
Pochi autori spiegano che i titini, oltre ad occupare Fiume, Pola, Trieste e Gorizia, sono giunti sino a Monfalcone, Romans d’Isonzo, Cividale del Friuli, Aquileia e Cervignano del Friuli, nella Bassa friulana. Una jeep di artificieri iugoslavi fu vista da partigiani della Osoppo sulle rive del Tagliamento, vicino ad un ponte. Come ha scritto Mara Grazia Ziberna a Gorizia “il periodo dell’occupazione titina, dal 2 maggio al 12 giugno 1945, vide la costituzione nella Venezia Giulia dello Slovensko Primorje, cioè il Litorale Sloveno, che aveva come capoluogo Trieste e comprendeva anche il circondari di Gorizia, diviso in sedici distretti e composto anche dai comuni di Cividale del Friuli, Tarvisio e Tarcento [della provincia di Udine], considerati slavofoni” (p. 83).
Si tenga presente, infine, che Maria Pia Premuda Marson, in un suo recente saggio, ha affermato: “Agenti speciali sovietici si erano inseriti nelle formazioni partigiane denominate Brigate Garibaldine”, operative sulla zona collinare di Vittorio Veneto, ai confini col Friuli (L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda…, 2017, p. 17).
Per scrupolo si è consultato l’elenco dei Caduti infoibati o diversamente massacrati in tempo di guerra (1943-1947) nelle zone del confine orientale e della Venezia Giulia (Legge 2004/92), per la Zona di Udine, senza trovare alcun riscontro riguardo al nominativo di Giuseppe Sfiligoi. Foto a fianco: cartolina di Monfalcone, 1920; Collez. privata.
Egli neppure compare nell’Elenco “Livio Valentini”. Caduti Repubblica Sociale Italiana, diffuso nel web. Altre fonti menzionano nonno Giuseppe Sfiligoi addirittura tra coloro che sarebbero ritornati, se non si tratta di un’omonimia. Solo i suoi molti discendenti sanno bene che non è vero. Oggi lo dicono pubblicamente. Egli risulta tra i “ritornati” nell’elenco pubblicato dal «Messaggero Veneto» il 9 marzo 2006, col titolo “Mille nomi di deportati riemersi dall’oblio”, ma la famiglia smentisce. Quelle mille persone furono imprigionate dagli iugoslavi invasori tra Gorizia e Monfalcone.
Ecco come viene indicato il suo nominativo nella lista, in grafia italiana e slava: “103 – Sfiligoi Jozef (Šfiligoj Jožef) Arrestato il 2.5.1945”. Poniamo l’attenzione, tuttavia, al fatto che potrebbe essere un’omonimia. È stata Nataša Nemec, stimata ricercatrice e storica di Nova Gorica (Slovenia) a comunicare il suo nominativo tra i presunti ritornati di un elenco di 1.048 scomparsi da Gorizia per mano iugoslava e diffuso nel mese di marzo 2006 all’agenzia ANSA e poi, appunto, pubblicato da molti quotidiani italiani. Coloro che sono ritornati vivi e vegeti dai Campi di concentramento titini ammonterebbero a 110 individui. Se tutti i ritornati, secondo gli storici sloveni, sono come Pepi della Gerla, c’è da dubitare molto. Sono comunque da tenere presenti i casi di omonimia.
Alcuni dei mille compagni di sventura di Giuseppe Sfiligoi vengono fermati dagli iugoslavi, a guerra finita, niente meno che in ospedale e poi reclusi nel Campo di concentramento di Borovnica, famigerato lager titino. È successo così a Turroni Trebles, nato il 27.10.1923 a Forlì, figlio di Leopoldo. Come si legge sul già citato «Messaggero Veneto» il Turroni è stato arrestato all’ospedale militare il 18.5.1945 a Santa Lucia d’Isonzo (GO) e incarcerato a Borovnica, presso Lubiana. Su tale lager iugoslavo ha scritto Mauro Tonino nel 2019.
Dal 1943 iniziano i bombardamenti aerei angloamericani su Zara, Fiume, Pola, Trieste e Monfalcone. Allora nonno Giuseppe Sfiligoi, si legge nel citato memoriale, “visti i pericoli derivanti dai bombardamenti quotidiani su Monfalcone, accompagnò a Genova la moglie Elisa, malata di cuore, presso la figlia maggiore Teresa”. Col mese di novembre 1944 egli è “richiamato alle armi dalla Repubblica Sociale [RSI], alla bella età di 65 anni, e dovette seguire il reparto della milizia fascista cui era stato assegnato fino a Pola, ove combatté contro i partigiani iugoslavi” (C. Gnesutta, Josef Sfiligoi…, p. 4). Anche Pola è oggetto di pesanti bombardamenti angloamericani, così nel febbraio 1945 Giuseppe, nella massima confusione, diserta e “a piedi, raggiunge Monfalcone tenendosi ben nascosto”. Poi c’è la sua cattura da parte titina.
Una nuova forma di studio riguarda il bullismo partigiano; in merito a ciò c’è un interessante libro del 1999. Renato Rozio, nel suo diario di partigiano garibaldino della Divisione Garibaldi-Natisone (filo-titina) in trasferimento dal Collio goriziano al guado dell’Isonzo presso Caporetto e poi in Slovenia fino a Lubiana, descrive bene lo stato d’animo del combattente per la libertà nel 1944-‘45. A parte le accurate descrizioni delle violenze gratuite e delle inaudite fucilazioni ordinate dal comandante “Lampo” per futili motivi sui suoi stessi sottoposti (R. Rozio, pag. 65, 77 e 79), quando essi giungono a Trieste “si ritrovano i partigiani di mezza Italia e moltissimi slavi. Questi già parlavano di Trieste come del loro porto sull’Adriatico, quindi di una meta irrinunciabile”. Trst je naš (Trieste è nostra): gridavano col mitra in mano. Un altro partigiano comunista italiano, stupito, chiede a Rozio: “Come è possibile che gli amici slavi pretendano ciò che è nostro?” (p. 164). Nella fotografia qui sotto: Militari e civili italiani arrestati dagli iugoslavi a Trieste, maggio 1945; ripresa dal web.
Nonno Giuseppe nella Grande Guerra – Si sa che Giuseppe Sfiligoi, da neonato, è abbandonato in un Istituto di Udine dalla madre minorenne “per prevenire uno scandalo data la posizione sociale della famiglia” (C. Gnesutta, Josef Sfiligoi…, p. 1), che stava nella Gorizia asburgica. Altre fonti, in base a ricerche d’archivio, riportano una località diversa (Daniela e Vladimiro Simsic). Viene riportato Castel Dobra (oggi in Slovenia) e un amore sorto fra cugini, che non hanno il permesso di sposarsi, perciò il neonato viene posto in una gerla di ciliegie (da cui il soprannome di Pepi della Gerla) e portato a piedi da tale Giuseppina di Dornovico Superiore in un orfanotrofio a Udine, come hanno riferito Vladimiro Simsic, Rachele Simsic e Carlo Gnesutta, grazie ai ricordi di zia Ida Sfiligoi. I Simsic sono pure autori di un albero genealogico degli Sfiligoi risalente al Settecento, utilizzando, tra gli altri, il corposo studio in lingua slovena di Majda Sfiligoj su Augusto Sfiligoj.
La coppia di genitori biologici, con i dovuti permessi, più tardi si sposò ed ebbe altri 16 figli. All’età di sei anni Giuseppe Renati (questo il cognome assegnatogli) viene affidato ad una coppia improle di Rivignano (Rivignano-Teor, UD), nota perché possedeva la fornace di mattoni. Forse si tratta dei D’Alvise-Anzil. L’unica fabbrica di laterizi menzionata, infatti, a Rivignano è la “Anzil Domenico & Geremia fu Paolo”, nel censimento della Camera di commercio dei primi del Novecento (Valentinis 1910, p. 73). Gli affettuosi genitori adottivi alla maggiore età di Giuseppe, gli comunicano di non essere i suoi genitori di sangue, ma d’anima. Negli stessi giorni gli perviene una lettera da un notaio di Gorizia, che lo convoca per “notizie riguardanti il suo stato anagrafico” (p. 2). Giuseppe, recatosi a Gorizia, conosce il “suo vero padre il quale gli notificò di averlo riconosciuto come suo primo figlio”. In quel frangente Giuseppe Renati diventa Josef Sfiligoj, con tanto di carta d’identità austriaca e copia dell’atto di nascita, rilasciato dall’Istituto Renati e vidimato dal Comune di Udine, del Regno d’Italia. Fotografia qui sotto: Cartolina di Rivignano (UD) via Udine, viaggiata, 1959; Collez. privata.
Allora Giuseppe, anzi Josef, sistema i suoi documenti e, per le autorità del Comune di Udine, diventa: Sfiligoi. Dopo avere adempiuto agli obblighi di leva italiana, conosce una bella ragazza di Rivignano, Elisa. Si sposano e, tra il 1909 e il 1914, nascono le prime tre figlie: Teresa, Teodora, detta Dora e Pierina, detta Rina. La famiglia sta a Udine, dove Giuseppe ha un lavoro. Nel 1915, a Giuseppe “giunse una lettera raccomandata dallo stesso notaio cui si era recato anni prima” (C. Gnesutta, Josef Sfiligoi…, p. 2) per motivi di eredità. Fatto il lascia-passare, si reca a Gorizia. Nello studio del notaio trova il padre biologico e i gendarmi del Distretto militare austroungarico di Gorizia che vogliono arrestarlo per renitenza alla leva austriaca, a meno che non indossi la divisa asburgica. Così fa, dopo aver scritto una lettera con dei soldi alla moglie. Nella Prima guerra mondiale il milite austriaco Josef Sfiligoj combatte contro l’Italia “pur senza mai sparare un colpo del suo fucile verso i soldati italiani” (p. 3). Intanto i Carabinieri di Udine lo cercano perché non risponde al richiamo delle italiche armi. Quando la moglie spiega loro che è a Gorizia per questioni di famiglia, vien dichiarato “disertore, anzi, peggio ancora, fuoriuscito col nemico” (p. 3). Quindi la sua famiglia è spedita al confino a Piedimonte d’Alife, provincia di Caserta, in Campania, mutato dal 1970 in Piedimonte Matese.
Negli ultimi tempi del conflitto Giuseppe-Josef, approfittando di un permesso, diserta e si dà alla macchia nei dintorni di Faedis (UD). Dopo la liberazione del capoluogo, 4 novembre 1918, va dai Carabinieri, mostra i suoi documenti italiani, dichiarandosi “italiano, convinto e patriota” (p. 3). Nel 1919, riunita la famiglia, si sposta a Monfalcone per lavoro. Nascono altre due figlie: Irma e Danira e dopo il 1922, deve iscriversi al Partito Fascista, “pena la perdita del lavoro” (p. 4). Poi scoppia la Seconda guerra mondiale, alla fine della quale lo arrestano i titini e svanisce. Immagine sottostante: Elegante lettera di zia Irma Sfiligoi a nonna Lina Gnesutta, per una richiesta di ospitalità tra parenti, 1943. Archivio C. Gnesutta.
Altri casi di violenza titina - Persino il celebre cantautore Gino Paoli, genovese di adozione, ma nato nel 1934 in provincia di Gorizia e vissuto nei primi mesi di vita a Monfalcone, ha dei ricordi riguardo alla morte nelle foibe. Gino Paoli disse a un giornalista del «Corriere della Sera» nel 2005 che gli ascendenti materni, i Rossi, erano una famiglia per bene, pacifica e benestante. Sicuramente non erano militanti fascisti. Nel 1944 “parte della famiglia di mia madre morì infoibata – ha detto Gino Paoli – ma la caccia all’italiano faceva parte della strategia di Tito, che voleva annettersi Trieste e Monfalcone”. Accadde che “i partigiani titini – ha aggiunto Gino Paoli – appoggiati dai partigiani comunisti italiani vennero a prenderli di notte [i parenti materni]: un colpo alla nuca e poi giù nelle foibe”.
Ascoltiamo un altro racconto. “Nel 1943 la mia famiglia fugge da Gorizia – ha detto Eva Ebner – perché tirava una brutta aria per gli italiani e ci siamo rifugiati a Tarcento (UD), poi mia madre mi ha riferito che, secondo le voci della gente, il signor Eremita, daziere di Gorizia, era finito in una foiba, io non sapevo cosa volesse dire foiba, ero una bambina”. Tra i mille deportati dai titini nella città isontina, in base al «Messaggero Veneto» in effetti figura un certo “Eremita Carlo, nato il 19.3.1905 a Nola (Napoli), padre Alfonso, madre Maria Felizia Milo. Economo alla Questura di Gorizia. Arrestato a Gorizia tra il 10 e 14.5.1945; a metà di agosto si trovava [prigioniero] a Lubiana assieme a Giliberto Rosario”.
Poi c’è la storia misteriosa riguardante Roberto Antonio Ivanicich, figlio di Benedetto, nato a Fiume il 1° giugno 1898. Pure qui c’è lo zampino dei titini. Ivanicich era conosciuto, negli anni successivi all’annessione di Fiume all’Italia, solo con lo pseudonimo di Adolf Marama Toyo e, a suo dire, aveva assunto la cittadinanza egiziana. È Franco Damiani di Vergada a riferire la vicenda di Marama Toyo, noto pure a Trieste. Ivanicich è stato pilota e preparatore delle moto da Speedway (Dirt Track). “È colui che ha importato in Italia e stati adiacenti, dall’Australia (e forse Nuova Zelanda), quella specialità sportiva che aveva conosciuto nell’altro emisfero, dove si è trovato probabilmente come navigante – ha aggiunto Franco Damiani di Vergada”. Dopo la seconda guerra mondiale, assieme ai cosiddetti ‘triestini’, nel 1946, “Roberto Ivanicich girò il Veneto per far vedere queste spettacolari gare a Treviso, Padova, Rovigo per poi perdere la vita in gara (a traguardo già superato) a Trieste, all’Ippodromo di Montebello, il 30 maggio del 1946”.
Con Goran Slavic, giornalista sportivo di Mattuglie (Croazia), ha concluso Franco Damiani di Vergada, che “mi ha procurato l’albero genealogico degli Ivanicich, sono stato a Fiume e al Cimitero di Cosala abbiamo trovato la tomba. La lapide aggiuntiva alla vecchia tomba di famiglia è stata profanata con l’eliminazione di nome e fotografia (probabilmente dai titini o loro amici) e si nota solo parzialmente la data 1 - VI, quella di nascita di Roberto Ivanicich. Ma la conferma che si tratta della nostra persona l'ha data a Goran la gentile direttrice del Cimitero, trovando un documento dell’inumazione in cui si dice che la salma è giunta da Trieste e che Roberto Ivanicich era noto con lo pseudonimo di Adolf Marama Toyo”. Nella fotografia sottostante: Rudge,1934, 500cc, con Toyo Marama.
Un esumato dalla foiba di Vines - Un’altra esule istriana, la signora Marisa Roman di Parenzo, classe 1929, da me intervistata il 26 gennaio 2015 ha detto che: “I titini cercavano di fare tutto di nascosto; mio zio, Carlo Alberto Privileggi, fratello di mia madre, lavorava ai cantieri di Monfalcone e fu fatto prigioniero con altri italiani ‘per accertamenti’, dissero e dalla caserma dei carabinieri di Parenzo i titini lo portarono al castello di Pisino”. E poi, ci fu qualche testimone di questi tragici fatti?
“I titini trasportarono gli italiani da eliminare con una corriera requisita – ha continuato la Roman – e il testimone è proprio l’autista”. In che senso? “Lui vide i partigiani col fucile scortare i prigionieri verso la macchia, dove c’è la foiba, sentì gli spari e vide tornare solo quelli con i fucili”. Come avete scoperto la foiba di Vines? “Mio zio Gino con certi paesani si mise a girare per i paesi dell’Istria, chiedendo ai contadini se sapevano qualcosa e loro gli dissero dell’autista e di quella corriera che faceva vari viaggi da Pisino alla foiba di Vines, profonda 226 metri. Poi furono avvertiti i pompieri, che in ottobre si mossero col camion, al suono della campana con l’effige di S. Barbara”.
Che cosa sa dei corpi delle vittime? “Alcuni erano legati a quattro a quattro col filo di ferro alle mani – ha risposto Marisa Roman – qualcuno aveva il colpo alla testa e altri solo fratture, così finirono nella cavità carsica ancora vivi, trascinati dalla vittima che aveva ricevuto il colpo alla nuca”. Siccome i cadaveri erano nudi e irriconoscibili, come avete individuato lo zio Carlo Alberto? “Mio zio Gino vide una salma che portava un bracciale passatempo di perline, lo prese e lo portò ai familiari ed ebbe la conferma che quello era un regalo ricevuto dallo zio Carlo Alberto quando lavorava in Egitto. Io ero adolescente – ha concluso la Roman – e frequentavo la scuola magistrale di Parenzo e la mia insegnante di italiano era Norma Cossetto, che fu stuprata da 17 aguzzini, gettata nella foiba di Villa Surani e recuperata dai pompieri di Harzarich. Noi compagne di classe restammo sconvolte da quel fatto atroce. Come si fa a fare quelle cose?”.
Conclusioni, la memoria nascosta – È stato lo storico Carlo Ginzburg a parlare di memoria nascosta, o criptomemoria. È una memoria inconscia che viene a galla nelle ricerche, come ha rivelato di recente il celebre studioso al giornalista Massimo Rospocher. Non sono da sottovalutare i pregiudizi, consci e inconsci, che lo storico si porta dietro, soprattutto se ammaliato ancora dalle ideologie. La ricerca, comunque – aggiunge Ginzburg: “deve accompagnarsi alla consapevolezza dell’importanza di provare, nei limiti del possibile, i risultati raggiunti”.
Per vari decenni il tema dell’esodo giuliano dalmata e delle uccisioni nelle foibe è stato congelato, per non disturbare Tito e per la realpolitik, come ha scritto, nel 2020, Andrea Zannini su «Il Friuli». Gli stessi esuli o parenti degli italiani infoibati si autocensuravano e reprimevano il loro idioma per lasciarsi meglio integrare nell’Italia matrigna. “Da bambino, i miei genitori mi obbligarono a non parlare più in dialetto fiumano – ha detto Carlo Conighi – per non farmi riconoscere dai compagni di classe e dai maestri, dato che gli esuli erano malvisti”. Dopo la legge 92/2004, istitutiva del Giorno del Ricordo, la memoria schiacciata o repressa è venuta a galla. Molti esuli, i loro discendenti e i familiari degli infoibati hanno iniziato a parlare con sicurezza, hanno iniziato ad aprire i cassetti ed è stato come un’onda d’urto per la storia d’Italia.
Le cinque sorelle Sfiligoi hanno avuto un ruolo determinante nel tramandare ai figli e ai nipoti la tragedia del loro babbo Giuseppe, prelevato dai titini a Monfalcone e mai più tornato a casa, poiché ucciso e gettato in una foiba, come disse la gente. La memoria inconscia di casa Sfiligoi si è trasformata il memoria familiare, mediante la produzione di un memoriale scritto. Diviene memoria collettiva con le interviste, con la ricerca e col presente articolo, condiviso tra vari discendenti e familiari prima della sua pubblicazione. Per la redazione del blog questo scritto è come un fiore posato sulla lapide virtuale di nonno Giuseppe Sfiligoi, detto Pepi della Gerla.
Nella fotografia : Sestri Ponente (GE), 1940 - Alcune delle cinque sorelle Sfiligoi. Da sinistra: Irma, Pierina, detta Rina e Danira, con una nipotina. Archivio C. Gnesutta.
Dove ti xe?
Dove ti xe, Pepi de la Gerla?
Dove ti xe?
Stoi, stoi! I zigava quei de Tito
no se sa dove i te ga seppellito.
Sei nel colore dell’acqua
a Santa Lucia d’Isonzo?
Sei nella bora di Trieste, dell’Istria e del Quarnaro?
Sei nella fragranza del formaio Tolmin?
O sei nel fruttato del vin bianco
del Collio, o Brda?
Dove ti xe?
Sei nel ferro battudo a Monfalcon per far
navi sì tanto giganti?
Dove ti xe?
Note. In lingua slovena: Stoi! = Sta fermo! Brda = Collio sloveno. Tali versi sono stati scritti dal collettivo redazionale, in omaggio a Pepi della Gerla.
Fonti orali, originali e ringraziamenti - Grazie all’architetto Franco Pischiutti, di Udine e a Daniela Conighi, soci dell'ANVGD di Udine. Si ringraziano, per certi spunti bibliografici, Carlo Cesare M., di Fiume e Laura B., di Pola, esuli a Latina. Oltre a Antonio Magliocchetti e Giampaolo Gnesutta, si è riconoscenti alle seguenti fonti orali, o scritte e digitali per la collaborazione riservata alla ricerca storica diretta da Elio Varutti; le interviste (int.) sono state condotte a Udine dall’Autore con taccuino, penna e macchina fotografica, se non altrimenti indicato.
- Carlo Cristiano Conighi (Fiume 1943-Ferrara 2010), int. a Ferrara con Daniela Conighi del 28 dicembre 2008.
- Franco Damiani di Vergada, vive a Trieste, Su Roberto Antonio Ivanicich, alias Adolf Marama Toyo, email all’Autore del 16 ottobre 2020.
- Eva Ebner, Gorizia 1940, int. del 12 maggio 2007 e del 17 novembre 2016.
- Carlo Gnesutta, Udine 1953, int. del 5, 10 e 17 novembre 2020.
- Marisa Roman, Parenzo, provincia di Pola 1929, int. del 26 gennaio 2015.
- Vladimiro Simsic, Gorizia 1945, vive a Udine, int. via Skype a cura di C. Gnesutta del 17 novembre 2020, in presenza della signora Rachele Simsic e di E. Varutti.
- Antonio Zappador, Verteneglio (PL) 1939, int. del 23 febbraio 2020 a Fossoli di Carpi, MO.
Archivi consultati e documenti originali - Archivio Arcivescovile di Gorizia e Archivio di Stato di Gorizia; consultazione a cura di Vladimiro e Rachele Simsic.
- L’Altraverità, Articolo di Elio Varutti, precisazione, e-mail alla presidenza dell’ANVGD di Udine del giorno 11 dicembre 2021.
- “Caduti infoibati o diversamente massacrati in tempo di guerra (1943-1947) nelle zone del confine orientale e della Venezia Giulia (Legge 2004/92)”, Zona di Udine, testo in Word a cura di Laura B., ricevuto dall’Autore il 20 ottobre 2020.
- Carlo Gnesutta, Josef Sfiligoi papà di Teresa, Teodora, Rina, Irma, Danira, Udine, 19 ottobre 2020, testo in Word, pag. 4.
- Daniela e Rachele Simsic, Su da noialtri [Ricerca genealogica sugli Sfiligoi], a cura di Roberta Corbellini e Orietta Pagnutti, corso di studi “Le storie nella storia”, Università delle Libere Età, testo in Word, Udine, 2018.
- Daniela, Rachele e Vladimiro Simsic, Albero genealogico degli Sfiligoi, testo in Word, Udine 2020, p. 2.
Riferimenti bibliografici e del web
- Aldo Cazzullo, “Gino Paoli: i miei parenti finiti nelle foibe”, «Corriere della Sera», 21 dicembre 2005.
- Lidia Luzzatto Bressan, Gli scomparsi da Gorizia nel maggio 1945, a cura del Comune di Gorizia, Associazione Congiunti dei Deportati in Jugoslavia, Gorizia, 1980.
- Elenco “Livio Valentini”. Caduti Repubblica Sociale Italiana, disponibile nel web.
- Silvio Maranzana, “Perseguitato dall’Urss, ma riabilitato da Tito”, «Il Piccolo», 11 marzo 2001, p. 9.
- “Mille nomi di deportati riemersi dall’oblio”, «Messaggero Veneto», Cronaca di Gorizia, 9 marzo 2006.
Maria Pia Premuda Marson, L’assassinio di Vittorio Silvio Premuda tra le epurazioni finalizzate al tentativo di porre una parte del nostro stato sotto la sovranità della nascente confederazione jugoslava, Padova, Cleup, 2017.
- Massimo Rospocher, “Il mugnaio spiega Dante. La storia è anche degli umili”, «La Lettura. Corriere della Sera» 18 ottobre 2020, pp. 12-13.
- Marina Rossi, “I partigiani sovietici”, in Pietro Spirito, Roberto Spazzali, L’altra Resistenza. La guerra di liberazione a Trieste e nella Venezia Giulia, Trieste, Ote-Il Piccolo, 1995, pp. 95-97.
- Renato Rozio, La paga del guerriero. Le vicissitudini di un partigiano della Divisione Garibaldi-Natisone sul Collio e in territorio sloveno (1944-1945), Udine, Del Bianco, 1997.
- Majda Sfiligoj, Kjer sem svoboden, tam sem doma: zivljenje in delo dr. Avgusta Sfiligoja [Dove sono libero là è la mia casa: vita e lavoro del dott. Augusto Sfiligoi], Trieste, voll. 2, 2005-2006. Riferimento bibliografico suggerito da Vladimiro Simsic.
- Mauro Tonino, Borovnica, lager jugoslavo per migliaia di italiani, senza una croce. Come alla foiba di Tarnova, on line dal 19 agosto 2019.
- Gualtiero Valentinis, Guida delle industrie e del commercio del Friuli pubblicata sotto gli auspicii della Camera di commercio e dell’Associazione fra commercianti ed esercenti della città e provincia di Udine, Udine, Premiata Tipografia fratelli Tosolini, 1910.
- Elio Varutti, Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia esuli in Friuli 1943-1960. Testimonianze di profughi giuliano dalmati a Udine e dintorni, Udine, Provincia di Udine / Provincie di Udin, 2017. Anche nel web.
- E. Varutti, L’ombra dell’Ozna in omicidi partigiani in Veneto. Il caso Vittorio Silvio Premuda, 1944, on line dal 10 agosto 2020.
- Andrea Zannini, “Non è sufficiente commemorare, è meglio studiare di più quegli anni”, «Messaggero Veneto», 17 gennaio 2020.
- A. Zannini, “Tito e le vittime della realpolitik”, «Il Friuli», 6 novembre 2020, p 41.
- Maria Grazia Ziberna, Storia della Venezia Giulia da Gorizia all’Istria dalle origini ai nostri giorni, Gorizia, Lega nazionale, 2013.
- Per la foto di Toyo Marama si ringrazia per la pubblicazione il seguente sito web:
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Ricerca di Elio Varutti. Servizio giornalistico e di Networking a cura di Tulia Hannah Tiervo, Sebastiano Pio Zucchiatti e E. Varutti. Lettori: Carlo Gnesutta e Enrico Modotti.
Copertina: Maria Iole Furlan, Recupero corpi dalla foiba, elaborazione da una foto storica con grafite e pastelli a olio su carta, cm 24 x 20, 2020, courtesy dell’artista. Fotografie da archivi privati citati nell’articolo oltre che dall’archivio dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), Comitato Provinciale di Udine, che ha la sua sede in Vicolo Sillio, 5 – 33100 Udine. Telefono e fax 0432.506203 – orario: da lunedì a venerdì ore 9,30-12,30. Presidente dell’ANVGD Comitato Provinciale di Udine è la dott.ssa Bruna Zuccolin.
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