Oltre a via Spalato e al carcere del tribunale di via Treppo, le Waffen SS avevano altre prigioni per interrogatori nelle case requisite agli udinesi sfollati o sottratte agli ebrei deportati ad Auschwitz. Si aggiunga poi la sede del Comando della Polizia Germanica di Sicurezza, la famigerata Sicherheitsdienst (SD) di Udine, situato in via Cairoli, sul fianco sud del palazzo del Liceo Classico “J. Stellini”. È il servizio segreto delle Waffen SS., un servizio d’informazioni e intelligence, composto anche da funzionari della polizia criminale tedesca, non necessariamente iscritti alle SS.
Da varie fonti si deduce che persino la gente comune sapesse che la deportazione nazista di ebrei, di partigiani, di militari italiani badogliani o di sospettati di contatti coi partigiani potesse significare la morte sicura. Certi deportati friulani vengono imprigionati in seguito a delazioni anonime di compaesani, che non vengono nemmeno verificate dai repubblichini, né dal puntuale servizio segreto delle Waffen SS. È il caso di Pietro Rizzo, detto Rino del 1924 e di suo fratello Paolo Rizzo, detto Vittorio del 1925, di Plaino, in Comune di Pagnacco, in provincia di Udine. Il Calvario dei fratelli Rizzo – come ha scritto Rino Rizzo – inizia il 15 aprile 1944 quando in casa giungono i carabinieri di Feletto Umberto alla ricerca di due sospetti di contatti coi partigiani col cognome Rizzi, diverso da Rizzo. Il 20 luglio 1944 i due fratelli Rizzo sono scortati in Giardin Grande (odierna Piazza I Maggio) al Comando di Udine del SD, per un lungo interrogatorio di fronte al maresciallo Hans Kitzmüller, che li spedisce al lager. Dal campo di concentramento di Buchenwald, tuttavia, Pietro e Paolo Rizzo riescono a salvarsi a fine guerra (vedi in bibliografia: Rizzo, pp. 16-22). Da altre fonti si sa che Hans Kitzmüller in realtà non era un maresciallo, ma un interprete della Sicherheitspolizei, o Sipo (Polizia di Sicurezza) della Germania nazista. Non aveva potere decisionale circa l’internamento degli arrestati. La figura di Kitzmüller è originale, collaborò con don De Roja e con don Aldo Moretti, delle Brigate Osoppo. Probabilmente fu proprio lui a passare a don Moretti i moduli in bianco originali per il rilascio dei detenuti. I tedeschi alla sera del 12 settembre 1943 hanno già occupato Udine, prendendo tutti punti strategici della città, come ha scritto Mario Quargnolo (a p. 71).
Foto sotto: Udine, viale Volontari della Libertà - Poco più in alto del tram, a sinistra, c’è la Villa Agostinelli, occupata dai nazisti per torturare e detenere sospetti partigiani. Cartolina dal web, anni ‘40.
Riguardo alle case di Udine sequestrate e occupate dai tedeschi si sa che, ad esempio, “in una villa sulla strada per Tricesimo da piazzale Osoppo – ha detto G.P.F. – nell’attuale viale Volontari della Libertà ci fu un comando delle Waffen SS”. Tale villa, degli Agostinelli, sfollati per i bombardamenti angloamericani, ai tempi del fascio repubblicano era in via Ettore Muti e prima ancora via Principe Umberto, mentre all’inizio del Novecento la strada era detta via Friuli. “Lo stabile oggi è a sinistra, uscendo dalla città, dopo i moderni condomini; lì si dice che siano stati torturati e uccisi certi prigionieri partigiani dai tedeschi e, forse, sepolti in loco”. Erano i giovani coatti della Organizzazione Todt a dover scavare tali fosse; pensavano essi che si trattassero delle solite fosse anticarro, chiodo fisso dei nazisti vicini allo sfascio del loro regime, ma invece era un piccolo cimitero improvvisato, cui si è rimediato nel dopoguerra. Dopo l’8 settembre 1943, il Terzo Reich si era instaurato anche in Friuli (Udine), in parte del Veneto (Belluno), nel Trentino Alto Adige (Trento e Bolzano) e in tutta la Venezia Giulia (Fiume, Gorizia, Pola, Trieste e Zara, nonostante le pretese annessionistiche croate). Hitler aveva provveduto a creare due Zone di Operazioni: l’ “Alpenvorland” - Zona di Operazione delle Prealpi per Belluno, Trento e Bolzano e l’ “Adriatisches Küstenland” - Zona di Operazione del Litorale Adriatico per le altre provincie costiere, includendo Lubiana, che il fascismo aveva annesso al Regno d’Italia nel 1941.
La villa Agostinelli di via Ettore Muti è ben segnata nella Carta della Gestapo, pubblicata dall’ANPI di Udine nel 2019, a cura di Rosanna Boratto. In genere non si sa che “il documento originario di tale mappa era nelle mani dell’onorevole Lorenzo Biasutti – ha detto Franco Pischiutti – dimenticato da qualcuno nella osteria Alla Buona Vite di via Treppo”. Poi fu consegnata al professor Luigi Raimondi Cominesi, che la studiò a lungo. Che la villa di viale Principe Umberto della famiglia Agostinelli fosse un comando tedesco, con tutti gli annessi e connessi, sepolture incluse, pare ci sia una fonte attendibile. È il memoriale di Bruna Sibille Sizia; si veda a pag. 125 del suo libro intitolato Diario di una ragazza della Resistenza. Friuli 1943-‘45. Chi ne sa di più?
Diversi ebrei abbandonavano le loro case per sfuggire alle deportazioni naziste. “I tedeschi avevano un comando a Udine sud – ha continuato Franco Pischiutti – in via San Martino avevano occupato una villa requisita; so che Roberto G., di fede ebraica, era riparato in Veneto, mentre suo zio era rifugiato a Gemona del Friuli ed ha vissuto durante la guerra clandestinamente presso la famiglia del geometra Cesarino Sabidussi”. Che cosa dicevano i vecchi udinesi dei tedeschi riguardo a villa Elisa di via San Martino e alle altre case requisite? “Si è saputo che i nazisti a Udine cercavano gli ebrei possidenti per derubarli, prima della deportazione nei lager – secondo le fonti del quartiere Udine sud – questi gerarchi tedeschi chiedevano agli ebrei di Udine e dintorni se potessero pagare con denaro, gioielli, oro ed altri valori così avrebbero avuto una specie di salvacondotto per sottrarsi alla morte, ma poi li avrebbero comunque fatti deportare nei Campi di concentramento”. A Gemona si nasconde presso le suore ed altre persone buone, salvandosi dalla deportazione pure Grazia Levi, come ha scritto Antonio Simeoli sul «Messaggero Veneto» nel 2020.
I Gentilli ebrei degli anni 1930-1940, come ha ricordato Walter Grassi, avevano un deposito di fieno a Udine in via Montebello, dove nel 2006 c’era una ditta di vetrai. L’intitolazione di via Montebello, come quella di via San Martino e via Melegnano sono del 26 maggio 1911 (Della Porta). Sempre in via Montebello nel sito medesimo, c’era la sede del Centro addestramento cani per l’Esercito Italiano. Tale Centro di addestramento chiude nel 1943, ha aggiunto Walter Grassi. Si noti che via Melegnano era costruita solo da via Marsala e arrivava fino in via Solferino, poi c’erano solo campi in direzione del viale Palmanova, come si può notare dalla Pianta della città di Udine del 1925. In zona c’è anche la conceria Contarini, in via della Madonnetta – secondo gli Appunti di don Aldo Moretti – e dalla metà dell’Ottocento era del tale Ferrari. Poi Contarini, che era ebreo, deve cederla alla Safrec, che lavora fino al 1962. Nei primi anni del Novecento c’è un Pietro Contarini con negozio di “pelli crude” in via Manin, stando alla Guida del Valentinis.
Pare che, nel 1944, il capomastro Eric o Erwin Lambert, delle Waffen SS, abbia condotto i lavori di ristrutturazione a Villa Elisa di Udine, per il bunker e per qualche cella detentiva, secondo le fonti del quartiere. Nel 1944, lo stesso Erwin Lambert ha diretto i lavori di riordino del vecchio essiccatoio per la Pilatura del riso, con l’aggiunta del forno crematorio, noto come Risiera di San Sabba, campo di concentramento a Trieste (Moehrle).
Leone Jona e gli altri nella Shoah
A Udine, secondo Pietro Ioly Zorattini i nazisti arrestano quattro ebrei della città e un padovano. Dal 19 gennaio 2020 in via San Martino, 28 c’è una pietra d’inciampo per ricordare uno di loro, Leone Jona, detto Nello, installata per il Giorno della Memoria, in presenza del professor Giampaolo Borghello, suo nipote. I tedeschi arrestarono Leone Jona il 9 gennaio 1944, essendo egli partigiano della Brigata Osoppo Friuli e lo deportarono ad Auschwitz il 2 settembre 1944, dove morì nel giro di sette giorni. Assieme a Leone Jona finiscono agli arresti altri tre ebrei di Udine. Il demente Gino Jona è arrestato dai tedeschi nel manicomio di Udine. Poi c’è Roberto Jona, arrestato il 12 marzo 1944 e deportato ad Auschwitz. L’ebreo deportato più conosciuto a Udine è senz’altro il barone Elio Morpurgo (1858-1944). Prelevato ultraottantenne e ammalato in ospedale il 26 marzo 1944 e deportato alla Risiera di San Sabba il successivo 29 marzo, egli finì di vivere in Austria, tra le guardie naziste, durante il trasferimento al lager. Sin da giovane Elio Morpurgo entrò nel consiglio comunale nel 1885, divenendo assessore alle Finanze. Dal 1889 al 1895 fu il primo sindaco ebreo eletto in Italia, poi sottosegretario alle Poste e all’Industria tra il 1906 e il 1919, fino a divenire senatore del Regno nel 1920, come ha scritto Valerio Marchi nel 2016.
Foto sotto: Udine, via S. Martino, 28 – Pietra d’inciampo per ricordare Leone Jona, detto "Nello", installata il 19.1.2020 per il Giorno della Memoria, in presenza del professor Giampaolo Borghello, nipote di Jona, arrestato il 9 gennaio 1944, essendo egli partigiano della Brigata Osoppo Friuli e deportato ad Auschwitz il 2 settembre 1944. Foto E. Varutti.
Infine si ha notizia di un ebreo nato a Pontelongo, in provincia di Padova, il quale viene arrestato a Udine; il suo nome è Leone Modena, fu deportato a Dachau e come tutti i sopravvissuti di quel lager venne liberato dall’esercito degli Stati Uniti d’America il 29 aprile 1945 (P. Ioly Zorattini).
La famiglia ebrea dei Morpurgo, originaria della città slovena di Maribor (Marburg an der Drau, in tedesco; Marburgo sulla Drava, in italiano) si fa notare anche a Fiume e a Spalato con Carlo Nathan Morpurgo, attivo nell’Associazione Delasem, sorta nel 1939 per assistere gli ebrei perseguitati emigranti, come ha scritto Patrizia Chiepolo Mihočić. Nella Delegazione per l’Assistenza agli ebrei Emigranti (Delasem) Carlo Nathan Morpurgo è in collegamento con la Comunità ebraica di Trieste, oltre ad altre associazioni consorelle.
Le citate testimonianze sulle case requisite dai nazisti a Udine, trovano conferme tragiche nel libro di Ferruccio Fölkel. Egli scrive che in via San Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, alle dipendenze di Franz Stangl, in collegamento alle Waffen SS ucraine di stanza al campo di concentramento triestino di San Sabba, con servizi anche a Castelnuovo d’Istria, provincia di Fiume. Il gruppo specializzato nella cattura di ebrei nella zona di Fiume è l’Abteilung R/2, sotto il comando di Franz Reichleitner, attivo fino a Sussak. Ogni comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) agisce tra Carso, Friuli ed Istria con retate, arresti, fucilazioni e impiccagioni. È suddiviso in tre gruppi: a Trieste, San Sabba c’è l’Abteilung R/1, con il forno crematorio, a Fiume l’Abteilung R/2 e a Udine l’Abteilung R/3 (Fölkel pp. 53, 56, 123).
Certe fonti riferiscono che davanti al carcere di via Spalato, dove erano reclusi sospetti partigiani, ebrei e militari italiani in attesa della deportazione dalla stazione di Udine, ci fossero dei fascisti in abiti civili che, per intimidire, sparavano alle spalle delle donne che portavano vestiti puliti e cibo ai prigionieri. Altre donne e ragazze raccoglievano i biglietti lanciati dai vagoni merci pieni di deportati, per farli arrivare alle disperate famiglie. È accaduto così a Alfeo Pezzetta, aviere deportato in un campo di lavoro in Germania, come ha raccontato Edda Toppazzini, di San Daniele del Friuli, sul «Messaggero Veneto» (Pace).
In carcere a Udine tra i partigiani rastrellati, c’è Luigi Barbarino, Matiònow (Resia 1914 – Flossembürg 1945). Era egli un appartenente al “Rozajanski bataljon” (Battaglione di resiani), collegato al IX Korpus di Tito dell’Osvobodilna Fronta - Fronte di Liberazione della Jugoslavia, con i capi venuti dalla Slovenia interna. Fu catturato a Resia dai nazisti, per una delazione e morì nel lager, per le ripetute percosse. “Ce lo raccontava sempre la zia Anna Valente – ha detto Lucillo Barbarino – che certi civili le sparavano alle spalle, per farle paura, gridando: ‘partigiana, partigiana’; la zia abitava in via Cisis e portava una gavetta di minestra a mio padre Luigi Barbarino. Lei e mio zio Odorico Valente poi aiutavano sempre la gente di Resia, che scendeva in treno dal paese in pianura a cercare cibo e aiuti vari. Ricordo che nel dopoguerra, mentre ritornavo a casa a Resia dal collegio di Cividale del Friuli per la domenica, vedevo salire in treno da Tricesimo a Gemona del Friuli le donne resiane, di Chiusaforte e di Pontebba con lo zaino pieno e il sacco di farina; erano andate a chiedere la carità ai friulani dei paesi, oppure scambiavano un po’ di noci, mele, o facevano qualche lavoro nei campi per avere roba da mangiare. C’era tanta fame e la gente dei paesi ci ha aiutato molto”. Luigi Barbarino fu catturato con le armi in pugno dai tedeschi, coadiuvati dai repubblichini e con certe spie fasciste della stessa valle. Fu arrestato pure il comandante del reparto partigiano; venne fucilato sul posto, in quanto slavo dell’interno.
Foto sotto: Truppe dell’Abteilung R in una pausa durante una retata antipartigiana. Immagine tratta dal libro di Tristano Matta, che si ringrazia per la diffusione nel blog. Mattuglie (ora Croazia), 1° maggio 1944. Da sinistra: Kurt Seidel, Paul Bredow e Hubert Gomerski fotografati all’incrocio delle odierne vie Viktoria cara Emina e Kastavska cesta, la costruzione che si intravvede in fondo fa parte della stazione di Mattuglie. Per la localizzazione e il commento dell’immagine sono grato a Luca Cossa.
Mario Savino, vice commissario di polizia a Udine e i suoi colleghi 1944-1945
Parliamo ora di un poliziotto che lavorava a Udine nel 1944-1945. È un milite italiano che “conobbe gli orrori di Dachau, Ebersen e Mauthausen”, come si legge sul quotidiano «Libertà» 13 marzo 1946. Si tratta di Mario Savino, vice commissario di Pubblica Sicurezza a Udine. Catturato dai nazisti con l’accusa di collaborazione col movimento partigiano, fu deportato nei lager dove trovò la morte. “Non piangere, che tanto tornerò” – disse dal vagone bestiame alla fidanzata a Udine, mentre lo stavano portando via, assieme a un gruppo di alcuni suoi colleghi poliziotti. La fidanzata, la signora V., nata nel 1924 a Tarvisio, intendendo la lingua tedesca, venuta a conoscenza su dove si trovasse, non si perse d’animo e volle raggiungerlo, assieme ad una sorella, per portargli un pacco di vestiario e di viveri, come ha raccontato Clelia Savino. Il vice commissario aveva chiesto alla fidanzata un pacco di farina di carrube, forse per avere qualcosa di molto nutritivo, con buone calorie (tra il 50 e il 60% di zucchero) e di facile assimilazione in prigionia.
La signora V. e la sorella giunsero fino al Campo di concentramento di Ebersen, sotto-campo di Mauthausen. Trovato un tizio che lavorava nel campo stesso, furono consigliate di andare via, altrimenti avrebbero preso pure loro. Lasciarono il pacco, ma non seppero più nulla del dottor Mario Savino, cui dal 2005 è dedicata una lapide nel cortile della Questura di Udine, assieme ad altri otto funzionari e poliziotti sterminati nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald. Mario Savino era nato a Pozzuoli (Napoli) nel 1914 e morì a Mauthausen il 15 marzo 1945.
L’unica consolazione per la signora V., venuta a mancare nell’autunno del 2021 – raccontano i testimoni – fu quella di aver ricevuto da una guardia, dotata di un po’ di umanità, una catenina con la medaglietta della Beata Vergine di Pompei (vedi foto sopra), che il vice commissario Savino evidentemente teneva nascosta in bocca durante le perquisizioni nel lager. La signora V. riconobbe il monile. Era il segno che lui era vivo e stava lì. La fidanzata, nel dopoguerra, fece incidere la data di morte sulla parte posteriore della stessa medaglietta - vedo foto qui sotto - e, negli anni 1980-1990, volle che a custodire il piccolo oggetto devozionale fosse la famiglia di origine del vice commissario, che lo conserva ancora (Collezione famiglia Savino, Udine).
Un altro fatto sconvolgente coinvolge la famiglia della signora V., che gestiva l’albergo “Trieste” a Tarvisio (UD), coma ha raccontato Fulvia Zoratto. Il giovane fratello della signora V., essendo stato riformato per problemi cardiaci alla chiamata alle armi, si trova a lavorare dietro il bancone della ditta di famiglia dopo il 1943. Un giorno entrano un gruppo di soldati tedeschi, ai quali il barista tarvisiano risponde gentilmente in lingua tedesca. A un ufficiale non va giù che un giovane così solerte non sia a combattere per il grande Reich, così si mette a canzonare il ragazzo del bar. Ad un certo punto, presa in mano la pistola, l’ufficiale lo minaccia puntandogliela alla tempia. Colto dal panico, il giovane fratello della signora V. muore d’infarto, davanti al bullo, ma esterrefatto ufficiale tedesco. La notizia crea scalpore in tutto il paese, andando a scalfire il buon rapporto che i soldati di Hitler tentavano di instaurare nella Valle tedescofona, oltre che italofona e slovenofona.
Tra i poliziotti italiani c’era un briciolo di umanità nel trattamento degli ebrei incarcerati dai nazisti con l’ausilio servile degli apparati militarizzati della Rsi, come le Brigate Nere. A Udine alcuni secondini erano addirittura vicini ai partigiani delle Brigate Osoppo. “Dentro il carcere – ha scritto Ferdinando Pascolo “Silla” a p. 156 – c’erano il direttore, un sergente maggiore e altri che lavoravano nascostamente per il Cln [Comitato di Liberazione Nazionale], ma c’era anche la macchina carceraria vera e propria che agiva per i tedeschi e per i repubblichini”.
Il vice commissario Savino ed altre decine di poliziotti di Udine furono traditi da una spia doppiogiochista. È il motivo per cui lo Sicherheitsdienst (SD), il 22 luglio 1944 fa circondare da un plotone di soldati tedeschi la Questura di Udine, che allora ha sede in via Treppo per arrestare circa 30 poliziotti, alcuni dei quali deportati nei lager. Tutto è dovuto al ritrovamento di una lista di dirigenti e poliziotti compromessi con la Resistenza, vergata secondo le informazioni di Guglielmo Iacuzzi, di Sedegliano. Come ha scritto Bruno Bonetti, tale Iacuzzi, già al servizio della SD germanica a Udine, in quanto doppiogiochista passa alle formazioni partigiane. Dal marzo 1944 Iacuzzi è niente meno che nell’Ufficio SD 1724 di via Lovaria 4, che poi cambia sede in via Montenero 4, disponendo di oltre 15 uomini alle sue dipendenze ed essendo in contatto con altri servizi segreti (Bonetti, p. 68-77). Quindi lo spione, nella veste di partigiano tarocco viene arrestato e fucilato al carcere il 10 dicembre 1944 in via Verdi, assieme ad altri tre patrioti veri. Incredibile che una lapide a ricordo della fucilazione dei quattro detenuti sia ancora lì integra, compreso il nome del doppiogiochista, nonostante si sappia dalla recente ricerca storica che Iacuzzi sia una volgare spia infiltrata tra i partigiani, patrioti autentici.
Foto sotto: Udine, 1944, sentinelle tedesche al bivio Paparotti a Udine sud. Fonte: Associazione Partigiani Osoppo.
Bullismo partigiano e l’eccidio del Ghebo
A proposito di partigiani doppiogiochisti, di spie e di bullismo partigiano, temi della indagine storica più recente, si fa un cenno a un gruppo di Gap, i cosiddetti Diavoli Rossi. I gappisti sono i Gruppi di Azione Patriottica (Gap), appartenenti al Partito Comunista d’Italia e operativi nei centri urbani. Il partigiano in questione sarebbe Gelindo Citossi (1913-1977) di San Giorgio di Nogaro (UD), nome di battaglia Romano il Mancino, il cui covo era nel Casale Papais, pare nel Codroipese. Ecco cosa scrive Elio Bartolini, che aveva partecipato alla Resistenza nella zona. Bartolini nel suo primo libro descrive sia il luogo, chiamato con il titolo ‘Il Ghebo’, sia le gesta del capo partigiano, che chiama ‘Il monco’, crudele, feroce, spietato nelle sue scorrerie con i suoi seguaci, giovani attratti dalla sua forte personalità. Monco o Mancino, la minestra non cambia, come non si è fatta giustizia sull’eccidio del Ghebo che qui si riporta. È un caso per troppi anni taciuto. In occasione delle feste natalizie 1944, in viaggio di servizio da Fiume nel Basso Friuli, l’autista Firmino Piccoli, in abiti civili, col suo camion con generi vari per la popolazione “è stato intercettato dalla banda di partigiani garibaldini sulla strada che da San Martino di Codroipo conduce al paese di Lonca, nei pressi di Villa Manin di Passariano – riporta uno scritto di Renzo Piccoli sul «Messaggero Veneto» del 2013 –. Qui i partigiani, rubato o requisito il carico, considerato un esproprio proletario, hanno ucciso mio padre (36 anni) e il suo aiutante, addetto alla legna nella caldaia del gasogeno, lasciandoli stesi nell’acqua delle Risorgive. Di questo eccidio non si è avuto riscontro nei giornali di allora, ma si trova traccia in una pubblicazione con l’elenco delle vittime della Resistenza. Negli anni ‘60 mi sono attivato per conoscere meglio il fatto e il luogo: sono venuto a sapere da un fattore, che lavorava i terreni di proprietà Kechler, che, giunto per primo sul luogo, ha scoperto i cadaveri avvertendo le autorità comunali di Codroipo”.
Il già menzionato Citossi, al comando dei Diavoli rossi, partigiani garibaldini, è celebre per l’assalto al carcere di Udine travestiti da tedeschi. Si tratta di un’arrogante azione (o bullismo partigiano?) che ebbe risonanza fino all’estero. Accadde il 7 febbraio 1945, lo stesso giorno dell’eccidio di Porzùs; coincidenza che fa riflettere. Si ricorda che Porzùs segnò il punto massimo delle tensioni fra partigiani garibaldini (pro-titini sloveni) e le Brigate Osoppo Friuli, che difendevano l’italianità del territorio, contro l’espansionismo iugoslavo. I garibaldini filo-titini fucilano 17 partigiani osovani, tra i quali una donna loro prigioniera (vedi in bibliografia: Piffer). Anche se di scarso profitto bellico, l’assalto al carcere di Udine fa liberare 73 detenuti, ma vengono uccisi due poliziotti giudiziari. Ciò provoca la rabbiosa rappresaglia nazista con la conseguente fucilazione di 23 partigiani e ostaggi sul muro del Cimitero di Udine. I nazisti attuano tale dura rappresaglia, come ci si poteva aspettare avendo un minimo di tattica militare. Si tenga conto poi che tra i poliziotti di Udine c’è un sentimento badogliano e, addirittura, come riferito da don Emilio De Roja, ci sono questurini che passano ai preti atti di liberazione firmati in bianco, per far uscire proprio i detenuti partigiani, in barba ai tedeschi (vedi in bibliografia: Don Emilio, p. 41). Proprio dei questurini di Udine vicini alla Resistenza bisognerebbe parlare di più, anziché osannare autori di macabri eccidi rimasti impuniti e partigiani affetti da bullismo strapaesano.
I partigiani, sia con i fazzoletti rossi, che verdi, liberati da don Emilio De Roja con i suoi stratagemmi e con carte di scarcerazione artificiose, sono elencati nel Diario di don Luigi Baiutti, parroco di Treppo Grande (Tirelli, pp. 17, 53, 54, 69). Lo stesso don Baiutti, inoltre, riferisce di alcuni secondini vicini alla Resistenza, come Leo Trentin (Tirelli, pp. 47, 53, 70). Pure don De Roja accenna al carceriere De Leonibus, obbediente a don Giuseppe Grillo, partigiano di Flaibano (Tirelli, p. 68). Il cappellano delle carceri è don Corrado Roiatti, detto don Galera. Egli riesce a portare messaggi andando contro gli ovvii ordini nazisti (Palmano, p. 103), ma si capisce da più fonti che le guardie carcerarie italiane non sono così ossessive. Celebrano la messa in prigione vari preti, oltre a don Roiatti, don Grillo, don Ennio D’Agostini, di Canale di Grivò e don Luigi Baiutti, che recita il Rosario con i detenuti, persino con certi partigiani garibaldini. Possibile che i Diavoli Rossi non sapessero tali fatti?
La trattativa per la ritirata dei tedeschi da Udine con il colonnello Voight nella notte del 29 aprile 1945 è condotta proprio da don Emilio De Roja, che conosceva bene il tedesco, essendo nato e cresciuto a Klagenfurt (Austria) da genitori friulani emigranti. L’abilità di don Emilio consente che tutto avvenga in modo ordinato: scambio dei prigionieri, rilascio degli impianti, delle infrastrutture e abbandono della città. Don De Roja pensò pure al carcere. A chi doveva essere consegnato, una volta partiti i tedeschi? Voight avrebbe preferito il procuratore di stato, ma don De Roja riuscì a convincerlo di consegnarlo a lui stesso, rappresentante dell’Arcivescovo e del Comando unito della Resistenza. Memore di quanto accaduto due mesi prima a Porzùs, don De Roja, prende in carico la prigione e, assieme ai suoi uomini di fiducia della Divisione Osoppo, fino al mattino si impegna a liberare gli incarcerati per fatti di Resistenza (Benedetti, Comelli… pp. 7, 37). In tal modo evita azioni sgangherate di qualche filo-titino pronto a vendette, torture e bullismo da strapazzo.
Si consideri, infine, che in base a certe fonti, la banda di Romano il Mancino si è macchiata di alcuni crimini odiosi pure nel dopoguerra. Secondo Pasquale Zamparo, di Muzzana del Turgnano, il Mancino, nel tardo mese di maggio 1945, in una caserma di Precenicco (UD) ha radunato decine di militi repubblicani e sospetti fascisti per farli sopprimere dai suoi gappisti.
Foto sotto: Udine - Prigionieri tedeschi in via Aquileia, 2.5.1945. Foto dal web.
Franz Stangl a Udine sud. Vita friulana di un comandante nazista 1943-1944
Da più fonti, compresa una sentenza della Corte d’Assise di Trieste del 22 febbraio 1975, è accertata la presenza di Franz Stangl in Friuli e, in particolare, nella parte meridionale di Udine. La città e tutto il Friuli si trovano, come già accennato, all’interno dell’Adriatsches Küstenland, o Zona d’operazioni del Litorale adriatico, o OZAK (acronimo di Operationszone Adriatisches Küstenland), istituita nel settembre 1943 nell’ambito del Terzo Reich. L’austriaco Franz Paul Stangl è stato comandante del Campo di sterminio di Treblinka, nel distretto di Lublino (oggi in Polonia). Era noto come la belva di Treblinka, come riporta Raul Hilberg. A Udine, in via S. Martino, dal mese di dicembre 1943 funziona l’Abteilung R/3, proprio alle dipendenze di detto Stangl, che è Hauptsturmführer, in collegamento alle Waffen SS tedesche e ucraine, attive al campo di concentramento triestino di San Sabba. Il reparto R/3 di Udine è poi comandato da Fritz Küttner, Oswald Walter e Helmut Fischer. Secondo l’esperto Luca Cossa, al posto di Oswald Walter, deve intendersi: Arthur Walther.
Alla fine della Seconda guerra mondiale, Stangl è catturato dagli Americani e detenuto in Austria. Il 28 aprile 1945, fugge in Italia. Con l’aiuto del vescovo Alois Hudal, si imbarca per la Siria dai porti dell’Alto Adriatico; è a Damasco nel 1948. Poi scappa in Brasile, dove vive tranquillo dal 1951 al 1967, lavorando alla Volkswagen, grazie all’aiuto di potenti e disinvolti personaggi del Vaticano, impauriti dai bolscevichi, iugoslavi inclusi. Fu Simon Wiesenthal a trovarlo. Estradato e condannato alla prigione a vita a Düsseldorf nel 1970, Franz Stangl muore nel 1971 (Hilberg 1995, p. 1.251).
Il nazista Stangl, nella caccia ai ricchi ebrei, è aiutato dal delatore Mauro Grün. È un ebreo triestino Graziadio Mauro Grün (alias Mauro Grini), nato nel 1910. Si fa chiamare anche “Verdi” o “dottor Manzoni”; riceve una somma tra le 5 e le 10 mila lire per ogni ebreo catturato. Scorrazzando per le strade della Bassa friulana, Stangl e Grini nel 1944-1945 compiono dei blitz a Trieste, Treviso, Milano, Varese e Sondalo, in provincia di Sondrio, a caccia di ricchi ebrei da depredare, prima di farli deportare ad Auschwitz. Tra Sondalo e Varese c’è Tirano, località a 3 km dalla Svizzera, dove Stangl va a depositare certe somme in una banca. Mauro Grini, il 26-28 aprile 1945, viene fatto eliminare col veleno, alla Risiera di San Sabba assieme alla moglie, dal Polizeimeister Otto Stadie, su probabile ordine di Stangl, poiché testimoni pericolosi (Fölkel, p. 13, 15, 27, 159). Lo stesso Stadie, nel 1944 a Gorizia, comanda i Domobranci, volontari sloveni delle Waffen SS (Moehrle, p. 352n).
Tra il 16 e il 29 ottobre 1943 giungono a Trieste i primi 92 specialisti dell’Einsatzkommando Reinhard. Tale gruppo di nazisti prende il nome da Reinhard Heydrich, vicecapo della Gestapo, giustiziato a Praga il 5 giugno 1942 da due partigiani cechi (Fölkel, p. 26n). L’Einsatzkommando Reinhard aveva agito nei campi di sterminio nazisti orientali che, per ordini superiori, sono distrutti fino alle fondamenta prima del trasferimento in Friuli e nella Venezia Giulia. Dall’autunno 1943 il comando d’azione Reinhard (Aktion Reinhard) è impegnato a garantire la sicurezza delle comunicazioni sul territorio partigiano nel Carso e in Istria, importante nei collegamenti stradali e ferroviari tra Fiume, Trieste e Udine. Si tratta, secondo la cancelleria di Berlino, di territori destinati in pratica a essere annessi al grande Reich, in caso di vittoria nazista.
Foto sotto: Udine, via S. Martino, sede dell’Abteilung R/3 di Franz Stangl, Foto E. Varutti 2019.
Dall’autunno 1943 a Trieste il comandante di polizia nella Zona di operazioni del Litorale Adriatico è il capo delle Waffen SS, tenente generale Odilo Lotario Ludovico Globočnick. Proprio lui è il capo della novantina di specialisti responsabili dell’uccisione di oltre due milioni e mezzo di ebrei nei campi di sterminio della Polonia occupata. Poi, a Trieste, c’è il capomastro Eric Lambert, pure lui attivo nelle esecuzioni in Polonia. A San Sabba (l’Abteilung R/1), all’inizio del 1944, Lambert dirige la sistemazione del vecchio essiccatoio per la Pilatura del riso, trasformato in un campo di concentramento, con strette celle per i detenuti e forno crematorio (Fölkel, pp. 26-33). Secondo René Moehrle, il nome dello stesso installatore nazista è Erwin Lambert, esperto nelle Mikrozellen, per recludere i detenuti in modo disumano (Moehrle, pp. 360-364).
Varie imprese della Bassa friulana nel 1944 sono requisite dai nazisti e inserite dell’Organizzazione Todt per fortificare il litorale Grado-Trieste nell’eventualità di uno sbarco alleato. Così succede alla ditta di bonifica e dragaggio Archimede Taverna di S. Giorgio di Nogaro (UD), dove lavora il geometra Mario Burba di Terzo d’Aquileia. I comandi partigiani titini spingono i loro adepti a infiltrarsi nella Todt per fare dei sabotaggi. Obiettivo dei titini è poi l’eliminazione dei capireparto. Non trovandoli, è d’uso sopprimere un parente. Il 14 dicembre 1944 due individui dei Gap provenienti dal Monfalconese, con accento bisiaco, prelevano a Papariano Ugo Burba, padre del geometra Mario Burba. Portato il prigioniero a Ronchi di Terzo d’Aquileia lo tramortiscono con una badilata e lo finiscono con un colpo di rivoltella alla nuca. Al fatto assiste Orsolina Gregori, una paesana, che conduce poi il parroco nella fossa improvvisata del Burba (Spanghero, pp. 27-32). Uccisioni e soprusi titini e gappisti si accavallano ad oscuri atti di bullismo. Come mai le uccisioni, persino di persone inermi, sono così all’ordine del giorno fra i partigiani comunisti titini? A parte la risibile motivazione, addotta ancor oggi da taluni sedicenti storici, che l’ordine venisse da Radio Londra, c’era una netta presa di posizione, del giorno 11 aprile 1944, nella relazione intitolata La politica di unità nazionale dei comunisti. Rapporto ai quadri dell’organizzazione comunista napoletana di Palmiro Togliatti, segretario del Partito Comunista d’Italia, che recitava “Sappiamo che vi sono dei fascisti e dei reazionari in giro, intesi a sabotare il nostro sforzo di guerra; ma noi vogliamo che si combatta contro di loro con tutte le armi, comprese quelle che darà ai partiti antifascisti la loro partecipazione a un governo di guerra” (Togliatti). Con ciò la licenza di uccidere è assicurata a chiunque, dato che la definizione di reazionario pare alquanto aleatoria e scarsamente verificabile.
Nella ricerca di ebrei da depredare Franz Stangl si muove, utilizzando le strade della Bassa friulana, tra Udine, Trieste, Treviso e Venezia, dove è segnalato il 20 aprile 1944 (Matta, p. 19). C’è chi, con gravi rischi per la propria vita, nasconde gli ebrei nella propria abitazione. È il caso della famiglia Parisotto, di Palmanova (UD), come ha raccontato Luigi Parisotto in una lettera al «Messaggero Veneto» del 2 marzo 2019. “Negli anni ’40 i miei genitori a Palmanova – ha scritto Parisotto – nascosero tre ebrei di Abbazia, dove gestivano un albergo”. Si tratta dei signori Willy Rudovitz, della signora Rudovitz e del figlio quarantenne di nome, pure lui, Willy Rudovitz, ospitati dalla famiglia di Giuseppe Parisotto, dal mese di novembre 1943 fino alla fine di maggio 1945, salvandoli dalla persecuzione.
Come ha riportato René Moehrle in uno studio del 2014, nella nota 126 a pag. 340: Franz Stangl, nato il 26 marzo 1908 ad Altmünster, in Alta Austria, fa la scuola elementare e tecnica nella stessa città. Dal 1° febbraio 1931 al 1° luglio 1935 è nelle forze di polizia tedesche, la famigerata Gestapo. Stangl era noto anche col diminutivo Stanglica, pronuncia: Stangliza (alla maniera slava, o ucraina). Nomignolo storpiato pure in Starniza. Più noto col nome di “Boia di Treblinka”, è stato operativo pure alla Risiera di San Sabba di Trieste e a Udine in via San Martino, nella Villa Elisa requisita. In base agli studi di Joseph Poprzeczny, editi nel 2003, si potrebbe pensare a due nominativi diversi: Franz Stangl e Franz Stanglica. Si nota, tuttavia, che le ricerche di René Moehrle, che ipotizza invece essere la stessa persona (con nome anagrafico e nomignolo), sono pubblicati in seguito, cioè del 2014. Devo a Luca Cossa la segnalazione del volume di Joseph Poprzeczny.
Foto sotto: Altro scatto di truppe dell’Abteilung R in una pausa durante una retata antipartigiana. Immagine tratta dal libro di Tristano Matta, che si ringrazia per la diffusione nel blog. Nei pressi del quadrivio di Ruppa, presso Fiume (ora Croazia). L’unico identificato è Fritz Tauscher, il primo a destra seduto sul muretto con gli occhiali da sole, dal colletto della tuta mimetica si intravvede la mostrina da SS-Untersturmführer. La foto è del 30 aprile 1944, il giorno della strage di Lippa, sito non distante da Ruppa. Il militare di schiena con il Suomi KP/31 verrà infatti fotografato anche a Lippa davanti la scuola dove venne compiuto l’eccidio (269 vittime) mentre la stessa veniva data alle fiamme. Per la localizzazione dell’immagine e la didascalia sono grato a Luca Cossa.
Sergio Burelli ha riferito che nel 1945 nella pianura friulana “ci fu un ennesimo rastrellamento nazista e cosacco, con un camion; in quella occasione fui fatto prigioniero pure io, a Nogaredo di Corno, assieme ad altri uomini prelevati dalle case del paese. Ci portarono alle carceri di via Spalato a Udine. Eravamo in 25 prigionieri in una cella di cinque metri per cinque. Fui interrogato da un ufficiale delle Waffen SS, il comandante Starniza [o Stanglica, NdR], che aveva una elegante traduttrice russa [piuttosto: ucraina], la quale sapeva il tedesco e l’italiano. Anche al carcere di via Spalato c’erano i cosacchi [collaborazionisti ucraini] col colbacco nero e la calotta rossa di guardia lungo il muro di cinta. Una sera la guardia carceraria aveva dimenticato di chiudere la luce della nostra cella, così dopo un po’ la sentinella cosacca gridò ‘lux’ e sparò un colpo in direzione della nostra finestra, ma la pallottola rimbalzò contro l’inferriata e cominciò a ballare per il cemento ed altre parti, rischiando di colpire proprio chi aveva sparato. Poi ricordo che in cella gli altri prigionieri dicevano che se ci avessero chiamato prima delle quattro del mattino, avremmo fatto la fine dei fucilati sul muro delle carceri del 9 aprile 1945”. Franz Stanglica dirige le carceri di Udine, per la sua crudeltà è detto: Cagnaccio (Tirelli, p. 61). Il capitano medico è Steinkgler. Proprio col nomignolo di Stanglica, il comandante Stangl, è menzionato pure nel Diario di don Luigi Baiutti (Tirelli, pp. 50, 54, 61). Lui come Weinman, comandante della SD di Trieste e il capitano Borchardt, della SD di Udine, nel mese di aprile 1945 si arruffianano le autorità religiose del luogo, nella speranza di ottenere un salvacondotto a fine guerra, liberando prigionieri per esaudire i desideri di mons. Giuseppe Nogara, arcivescovo di Udine (Tirelli, p. 62). La guerra è così, pochi sono gli uomini tutti d’un pezzo. Un altro membro della SD di Udine è Fritz Wunderle, coinvolto nella strage di Torlano (Nimis), nel 1944, mai identificato, nè ricercato.
Vediamo un altro fatto del 1944 su Stangl. “Per ordine del tenente Stonolika – ha scritto Mario Quargnolo –, tutte le donne che dalle 18 alle 23 circolavano per le vie di Udine la sera del 14 ottobre, furono fermate, caricate su autocarri, portate in caserma dell’8° Alpini da dove furono accompagnate all’ospedale per la visita medica. Il rastrellamento di donne sane e oneste fece un grave scalpore in città e sollevò infinite proteste. La città di Udine merita una riparazione con l’allontanamento immediato dei responsabili dello scandalo, che io chiedo formalmente…” (Quargnolo p. 113). Questo addirittura è parte del testo di una lettera di protesta firmata niente meno che da Benito Mussolini all’ambasciatore della Germania Rudolf Rahn nella Rsi, del 10 dicembre 1944. Naturalmente potete immaginare cosa fece di quella ufficiale protesta l’ambasciatore di Hitler nell’Italietta di Mussolini. Se ne fece un bel baffo ed archiviò. Forse, Quargnolo riferisce male il nome del capo delle carceri di via Spalato che, secondo altre fonti, è Stanglica, ossia Stangl, anziché Stonolika. C’è chi dice che molte di tali signore udinesi per bene indossassero delle eleganti gonne a godet con graziosi faldoncini semitubolari più lunghi dietro e meno davanti, scendendo a campana oltre i polpacci, sfiorando delicatamente le caviglie. Si tratta di una gonna scampanata, o svasata ad “A”. Era la moda degli anni 1930-’40, su cui si è soffermato pure Renzo Valente (p. 105). Perché mai il comandante Stangl ha voluto punire le donne della Udine-bene trattandole come delle meretrici da marciapiede?
Si prende atto, in conclusione, che i dettami di Hitler per il Nuovo Ordine, riguardo ai popoli slavi da intendersi come Untermenschen, ossia subumani, senza diritto di vivere (Shirer, vol. II, p. 1.427), vengono disattesi proprio dagli stessi gerarchi della Gestapo, come Stangl, che si avvale di centinaia di Waffen SS originari dell’Ucraina per i suoi scopi sordidi. Del resto, Stalin e Hitler erano alleati fino a metà del 1941, volendo spartirsi la Polonia invasa, lasciando ammutoliti i comunisti del resto del mondo, Togliatti compreso. Altri ucraini il 29 e 30 settembre 1941 si rendono artefici, su comando tedesco, di un atroce sterminio d’ebrei di Kiev, occupata dai nazisti. È l’eccidio della gola di Babij Jar, dove a colpi d’arma da fuoco vengono assassinati 33.771 ebrei, donne, vecchi e bambini inclusi. Kiev è una città cosmopolita, dove vivono 224.236 ebrei, pari al 26,48% della popolazione, un terzo dei quali viene evacuato nelle retrovie. Nel rione di Podil coi militari tedeschi della Wehrmacht e l’immancabile Sicherheitsdienst collaborano all’ammassamento gli stessi cittadini di Kiev, poi ci sono la milizia e gli ausiliari ucraini. Ci si mettono di mezzo perfino i portieri, i capicasa e gli amministratori dei blocchi condominiali sovietici a favorire la registrazione, il concentramento, la marcatura e l’annientamento della minoranza ebraica. Durante e dopo la guerra, in epoca stalinista e oltre ad essa, il territorio di Babij Jar fu modificato e riconvertito con il fine di rimuovere i segni fisici del genocidio (Salomoni, pp. 9, 16-18). Fu una triste pagina di storia, molto nazista e un po’ sovietica, che pretenderebbe di reggersi sulla falsa accusa di sabotaggio lanciata contro gli ebrei.
L’ultima considerazione si riferisce al fatto che la letteratura politico sociale italiana dal dopoguerra per oltre un trentennio (Albertelli) dia scarso peso ai temi della Shoah e a quello, ancor più negletto, dell’esodo giuliano dalmata.
Nota sull’immagine di copertina - Si intitola No words il quadro a olio riprodotto in copertina. È opera dell’artista Liliana Scocco Cilla, che è nata a Pola, quand’era nel Regno d’Italia e vive a Ravenna; è la nota fautrice del Digitismo, ovvero l’arte di dipingere con le dita direttamente sulla tela. Dinnanzi ai fatti storici della Shoah si resta senza parole per la banalità del male. No words, appunto come il titolo del quadro. Poi scatta una riflessione sull’umanità, sulla democrazia e sui diritti dell’uomo, per contrastare l’indifferenza, come insegna Liliana Segre. Allora ho chiesto alla grande pittrice il permesso di riprodurre qui la sua opera del 2018. Liliana Scocco Cilla mi ha comunicato in modo caloroso la sua gentile concessione alla pubblicazione e diffusione. Ne sono molto onorato. L’immagine è stata ripresa dal sito web di Liliana Scocco Cilla: http://www.lilianascoccocilla.it/
Documenti originali
- Walter Grassi, Note varie su Udine sud, 24 ottobre 2006, ms, cc. 4. Coll. E. Varutti.
- Aldo don Moretti, Appunti e note, Udine [1980] dattiloscr., pp. 2, Archivio della Parrocchia di S. Pio X.
- Luigi Parisotto, Dossier Rudovitz, Palmanova 2004-2019, ritagli di giornale, datt. e ms. Coll. E. Varutti.
- Renzo Piccoli, Dossier Firmino Piccoli, Udine, 18 marzo 2019, cc. 5, ms. Coll. E. Varutti.
Fonti orali e ringraziamenti
Rivolgo i miei sinceri ringraziamenti al personale e alla direzione delle seguenti biblioteche, archivi ed istituti, dove ho potuto effettuare le mie ricerche: Archivio Municipale di Udine; Archivio Osoppo della Resistenza in Friuli, Udine; Archivio della Parrocchia di S. Pio X, Udine; Biblioteca dell’Associazione Partigiani Osoppo, Udine; Biblioteca Civica “Vincenzo Joppi”, Udine; Biblioteca del Seminario arcivescovile “Mons. Pietro Bertolla”, Udine; Biblioteca della Società Filologica Friulana, Udine; Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine.
Interviste effettuate da Elio Varutti con penna, taccuino e macchina fotografica a Udine. Oltre agli intervistati sottoelencati, per la cortese collaborazione riservata si ringraziano Luca Cossa, di Tarcento (UD), Maurizio Daici, di Artegna (UD) che ha vissuto a Udine sud, Lucio Rossi di Palmanova (UD), Bruno Bonetti, Daniela Conighi, Franca Pascoli, Valerio Marchi, Roberto Peloi di Udine e Liliana Scocco Cilla di Ravenna.
- Lucillo Barbarino, Matjònawa (Resia 1941-Udine 2021), intervista telefonica del 23 aprile 2020.
- Sergio Burelli (Fagagna 1926-Udine 2017), ha vissuto in varie località del Friuli e, per lavoro, a Udine, int. del 19 aprile 2014 e 12 ottobre 2016.
- G.P.F., 1938, vive a Udine sud, int. del 29 dicembre 2020.
- Walter Grassi (Pontebba 1923-Udine 2016), ha vissuto a Udine sud, int. del 24 ottobre 2006.
- Renzo Piccoli, Fiume 1937, esule a Udine, int. del 18 marzo 2019.
- Franco Pischiutti, Gemona del Friuli 1938, vive a Udine sud, int. del 5 febbraio 2020.
- Clelia Savino, Udine 1946, vive a Udine sud, int. del 27 ottobre 2016 e del 16 marzo 2022.
- Pasquale Zamparo, Muzzana del Turgnano (1933-2019), testimonianza raccolta verso il 2010 da G.P.F. e riportata all’Autore il 29 dicembre 2020.
- Fulvia Zoratto, Udine 1950, vive a Udine sud, int. del 19 marzo 2019.
Foto sotto: Biglietto di Fiorello Castellarin di San Giovanni di Casarsa lanciato dal treno della deportazione e raccolto per avvertire i suoi familiari. Archivio Mario Gianfrate.
Riferimenti del web
- Mario De Simone, Chi vuole vedere la mamma faccia un passo avanti, mio fratello caduto sotto i ferri di Menghele, on line dal 30 dicembre 2020 su eliovarutti.blogspot.com
- Anna Pizzuti, Ebrei stranieri internati in Italia durante il periodo bellico, nel web dal febbraio 2016: http://www.annapizzuti
- Elio Varutti, Ebrei a Udine sud e dintorni, 1939-1948. Deportazione in Germania e rientri, on line dal giorno 11 novembre 2016 su eliovarutti.blogspot.com
- E. Varutti, Ebrei di Abbazia clandestini a Palmanova 1943-1945, on line dal 5 maggio 2019 su eliovarutti.wordpress.com
- E. Varutti, Massacro gappista del Ghebo, in Friuli e i poliziotti di Udine al lager, 1944-’45, on line dal 21 aprile 2020 su eliovarutti.wordpress.com
Cenni bibliografici
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- Rosanna Boratto (a cura di), La Carta della Gestapo. Decifrazioni e misteri di un itinerario della memoria, Udine, ANPI, 2019.
- Patrizia Chiepolo Mihočić, “Carlo Nathan Morpurgo: una vita dedicata ad assistere gli ebrei” «La Voce del Popolo», 15 dicembre 2020, p. 21.
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- Gualtiero Valentinis, Guida delle industrie e del commercio del Friuli, Udine, Tipografia Fratelli Tosolini, 1910.
Foto sopra: Gavetta di Pascoli Pietro, Pedal, classe 1920, partigiano dell’Osoppo. Fotografia di Leoleo Lulu.
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Ricerca di Elio Varutti, per il Circolo culturale della Parrocchia di San Pio X, Udine. Servizio redazionale e di Networking a cura di Girolamo Jacobson e E. Varutti. L’elaborato presente è dedicato alla memoria di Renzo Marchiol, della Parrocchia di San Pio X, Udine. Lettori: Tiziana Menotti, Enrico Modotti e Sebastiano Pio Zucchiatti. Copertina: Liliana Scocco Cilla, No words, olio su tela, cm 80 x 80, 2018, courtesy dell’artista. Fotografie da collezioni private citate nell’articolo. Aderisce: il Centro studi, ricerca e documentazione sull’esodo giuliano dalmata, Udine.
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